Oggi ballo la libertà

2 Febbraio 2019

Una magnifica giornata invernale, illuminata e ventosa, e i resti del muro di Berlino sfavillavano.
La città ha spesso il cielo coperto, ma quando filtra una lama di sole, sembra un battesimo. Quel giorno era molto di più: quel giorno era una celebrazione.

Álvaro si siede per terra, ha trovato quello che cerca. Guarda il murale di fronte a cui ha deciso di rimanere per l’intera mattina. Tiene le mani in tasca per il freddo, allunga il collo per prendersi il sole. Chiude un attimo gli occhi, e pensa.

Klaus, diciott’anni e berretto calcato sul naso, vorrebbe fare una foto, ma c’è Álvaro davanti. Vorrebbe chiedergli di spostarsi solo per un momento. Si avvicina, nella propria testa cerca di formulare una frase che non suoni scortese. Quando sta per parlare, nota una lacrima sulla guancia di Álvaro. Scende da sola. Unica. Non è preceduta né seguita da altre.

«Qualcosa non va?» chiede Klaus. Forse quel signore con i capelli ancora neri nonostante l’età ha bisogno di aiuto.
«Molte cose non vanno» dice Álvaro, rivelando l’accento straniero. «Ma oggi va tutto bene».

Klaus finge di accontentarsi della risposta. Si mette un po’ di lato e prova comunque a scattare la foto.
«Mi sposto?» chiede Álvaro.
«No no».
«Sì, dai, mi sposto». Álvaro si alza e indietreggia verso la fine del marciapiede, in modo che il ragazzo possa fare una foto senza persone.
Klaus ci ripensa. Le foto-senza-persone sono pulite, ma a volte non dicono nulla. «Forse potrebbe comparire anche lei nella foto», dice Klaus, «magari solo di schiena, se non le va che si veda il viso».
«Di schiena? D’accordo». Álvaro si risiede dov’era prima. Klaus scatta la foto (e la stamperà e la terrà per gli anni a venire e si ricorderà sempre dell’uomo che ballava per la libertà).

«Sai che cos’è una dittatura?» gli chiede Álvaro.
Il ragazzo fa sì con la testa. Poi fa no. «Ho studiato qualcosa. Ma non so che cosa significhi viverci».
«E ti auguro di non saperlo mai» dice Álvaro. Si rimette le mani in tasca. La lacrima è ormai caduta per terra, ma ne è rimasta la scia luminosa sulla guancia.

«Sai che cosa fa una dittatura, ragazzo? Beh, tante cose…»
Adesso Álvaro si abbraccia da solo e stringe, stringe le braccia con le mani, si blocca quasi la circolazione.
«Ti rubano il corpo. Diventa loro. Ci fanno quello che vogliono. Lo portano allo sfinimento, lo resuscitano, lo riabbattono. E pian piano ti rubano anche i pensieri. Partono da quello che si vede per arrivare a ciò che non si vede».
Álvaro torna a rilassarsi, le mani di nuovo in tasca. Fissa il muro. Guarda l’immagine che ha scelto.
«Mio fratello è stato prelevato il tre dicembre del ‘77. Non l’abbiamo più rivisto. Sono quarantadue anni che mi chiedo perché non abbiano preso anche me. Ma è sbagliato pensare così. È la domanda sbagliata. La vera domanda è perché hanno preso lui. Perché?»

Klaus si siede per terra vicino ad Álvaro. Qualcosa gli suggerisce che è il posto giusto dove stare.
«Di dove sei?»
«Buenos Aires, ma vivo a Berlino da vent’anni. Tu?»
«Amburgo».
«Sei qui in gita?»
«Sì».
«I tuoi compagni dove sono?»
«Abbiamo due ore libere. Io sono venuto qui».
Álvaro annuisce.
«Come si chiamava tuo fratello?»
«Horacio. Il giorno in cui l’hanno portato via, credevo di impazzire, e anche il giorno seguente e tutti i giorni successivi. Anche stamattina. Una pazzia che negli anni diventa più silenziosa, ma non per questo meno martellante. Sai che cosa mi ha salvato, ragazzo?»
«Che cosa?»
Álvaro sorride. «Il tango». Indica il murale di fronte a cui si trovano. «Mi ha salvato quella cosa che vedi lì».

«Resistevamo. Ballavamo tango nelle nostre case. Nelle nostre teste. L’Argentina è un paese fantastico – e con questo voglio dire che c’è fantasia e qualcosa di surreale al tempo stesso. Combattiamo con la fantasia il male che noi stessi creiamo».

Álvaro si accarezza la fronte, sono quarantadue anni che ripercorre gli stessi pensieri, ogni giorno e ogni giorno.
«Hanno provato a toglierci anche quello. Mentre vendevano il nostro tango all’estero come una bandiera, in casa chiudevano le milonghe, censuravano canzoni, proibivano il lunfardo, stilavano liste di proscritti. Operación Claridad. E io di chiaro non ci vedevo proprio nulla».

«All’Olimpo mettevano musica di tango a tutto volume per coprire le urla dei torturati. La nostra musica per coprire il loro male. La nostra musica»·

«Noi continuavamo a ballare, in segreto, ovunque potessimo, in qualsiasi momento. Anche solo canticchiandoci una strofa nella mente e modulando la camminata sulla melodia. Era un modo per tenerci stretti il nostro corpo. Per tenercelo ancora addosso prima che ce lo portassero via. Un modo per ricordarci cosa significhi abbracciare ed essere abbracciati».

«Mi dispiace» dice Klaus. Si sente stupido a pronunciare quelle parole, ma forse il silenzio sarebbe peggio.
«Ma oggi va tutto bene. C’è il sole. Sono anni che non vedevo una luce così in questa città».
Klaus ora vorrebbe una foto insieme ad Álvaro, ma ha timore di chiedergliela. Teme che lui possa sentirsi un pezzo di storia da immortalare in un ricordo, come quei pezzi del muro impacchettati in scatole trasparenti e venduti nei negozi di souvenir, che chissà se sono davvero ancora pezzi del muro o pietre prese dai lavori in corso di qualche cantiere.
Klaus rinuncia alla foto. Invece cerca di sentire la vicinanza di Álvaro, l’energia calma eppure sconvolta del suo peso a terra, il calore che da qualche parte avrà sotto il giubbotto.

«Sorveglia sempre la capacità di sentire del tuo corpo» gli dice Álvaro. «E quella del tuo cuore. Se un giorno scopri che la tua pelle sta diventando sorda e i tuoi pensieri indifferenti a quello che ti accade intorno, allora inizia a ballare. Balla balla balla, e abbraccia sfrenatamente».

Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!

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