Nostalgia

7 Novembre 2020

La verità è che ho fatto di tutto per fingere che tu non mi mancassi. Mi sono abituata a queste giornate in cui sei stato messo nel cassetto dei sogni, dei ricordi, dei non-più-mondi.

Non è stato semplice. All’inizio ho evitato di guardarti. Ho smesso di guardare anche chi ti guardava. Poi mi sono imposta di non ascoltarti. Appena percepivo una nota che parlasse di te, cambiavo canale del cervello, spegnevo tutto, mi tappavo il cuore.

Per un po’ è andata bene. C’era comunque altro a cui pensare. Molto altro. Tipo come sopravvivere, come reinventarsi, come muovere i piedi in un nuovo territorio.

I mesi sono passati. Un po’ sordi, un po’ molli-immobili: tutti quei giorni-gelatina. Se ci ripenso, mi chiedo come facessi a non sentire il tuo richiamo. Siamo immensi maestri di strategie dell’oblio.

È bastato un passo falso per mandare all’aria mille fiale d’anestesia. Sovrappensiero ho aperto uno dei tanti video che circolavano in uno dei tanti social. Una musica ti suonava. Una coppia ti ballava. Sono stata travolta da un impasto di giochi e ritmo e passetti piccoli così, veloci così, poi lenti, definiti, come improvvisi gesti nell’aria che dividono lo spazio in un prima e un dopo.

È bastata un’immagine, una nota, un nulla, perché io sentissi quello che avevo nascosto per mesi. Tutta la voglia, l’amore, la nostalgia. Tutte le lacrime che servono, fino all’ultima goccia.

E adesso non so più a quale muro, mare, merda, attaccarmi per farti tornare. Non so più quali intonaci grattare per far ricomparire la tua immagine nelle milonghe. Non so su quali vette arrampicarmi e quale aria fendere per riaprire lo spazio del tuo suono. Ti vorrei come un’eco per sempre.

Vorrei danzarti ogni giorno. Danzare la goccia di miele sul foro di un fico che si è preso il sole del sud, danzare la donna con il vestito bianco che si è sporta alla finestra, il gesto del vecchio signore che si massaggia le mani nodose al supermercato.
Solo tu riuscivi a farmi danzare tutto, senza giudizi, senza gerarchie, senza prigioni.

Che cosa devo fare per farti tornare?
Quanti incensi devo accendere per onorarti, in questo momento in cui non posso toccarti? Quanti pali santi e salvie nordiche e candele?

Voglio quasi che tu mi faccia male da quanto ci vogliamo bene. Quel dolore strano, rimodulato, che torna per guarirci. Voglio che ci guariamo.
Perché ho un’onda che sbatte dentro un cubo di vetro e non so – ti giuro che non lo so – se esista qualcos’altro che possa liberarla.

Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!

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