La Viruta

23 Marzo 2019

Nella Viruta si scende. O almeno così mi sembra di ricordare.
Certo, anche al Canning si arriva pian piano, ma il livello rimane lo stesso.
È come se a un certo punto la notte di Buenos Aires chiedesse un pedaggio: se vuoi continuare a ballare, devi avvicinarti sempre di più al centro della Terra.

Come il Canning, neppure la Viruta è “subito”. Non la trovi dopo la porta del civico 1366 di Armenia. Prima accedi a un grande atrio che potrebbe essere quello di un hotel, di un centro congressi o di un cinema – forse persino di un condominio di lusso con la portineria. Poi vai verso destra e inizi a scendere.

Héctor mi precede volando per le scale. In realtà sono pochi gradini, ma ho la percezione che siano interi piani e pianerottoli e che Héctor corra giù per un imbuto. Un paio di volte si ferma a controllare che io lo stia raggiungendo.

Quando approdiamo al piano della pista, mi sento immersa nel rosso. Non so se qualcosa sia effettivamente rosso (forse una specie di sipario in fondo alla sala? forse i riflettori appesi al soffitto?), ma la luce, l’atmosfera, la velocità dei movimenti delle persone creano nella mia testa un carminio diffuso.

Héctor è ispirato da una tanda movimentata, mi dice di prepararmi a ballare un tango rock’n’roll. Gli faccio notare che sono le quattro di notte. Di rock nel corpo mi resta poco, ho i riflessi rallentati, i segnali del cervello arrivano ai muscoli dopo ere geologiche.

Héctor mi guarda come dire: «Por favor! Non lo sai che l’energia del tango si autorigenera? Che qui la resurrezione è la normalità?»
«Por favor» dice Héctor. E io: «Ok».

Alle quattro e mezza arrivano medialunas e cappuccino. Su ogni tavolo compaiono brioscine ricoperte da una colata di zucchero lucido, traspirano profumo di burro come stantuffi. Una benedizione in mezzo a una pista da ballo.

Héctor mi dice che è solo la fame a farmi sembrare prelibato quel «pedazo de goma». Una volta sì che erano buone, le medialunas, ma la pasticceria da cui la Viruta si rifornisce ha cambiato gestione un paio di volte e a ogni turno è stato peggio.
Sarà. A me quel banchetto continua a sembrare una benedizione in mezzo a una pista da ballo.

Verso le cinque rimettiamo le scarpe normali, hanno cambiato le luci e anche la musica. «Adesso è il momento in cui non si capisce più niente» dice Héctor. «Possiamo andarcene».

Risaliamo i gradini, siamo di nuovo nell’atrio dell’hotel (o del cinema, o del centro congressi). Alcuni uomini in abito scuro chiacchierano attorno a un tavolo molto grande.
«Prima di tornare a casa ti porto in un posto» dice Héctor. «Non puoi ripartire da Buenos Aires senza esserci passata».

Camminiamo per qualche minuto lungo vie tranquille.
«Pochissimi conoscono questo panificio, solo chi abita nei dintorni. È il migliore di tutta Buenos Aires. Se a quest’ora bussi alla porta laterale, esce il pasticcere, gli dici cosa vuoi, lui sparisce un attimo e torna con quello che hai chiesto».

Accade proprio così. Il pasticcere ci riceve, scompare e riappare. Mi consegna un sacchettino di carta in cui sono avvolti quattro “vigilantes” caldi: dolci rettangolari con un taglio in mezzo da cui sgorga dulce de leche.

In quello arrivano altri tre uomini con le nostre stesse intenzioni.
Il più alto indossa un impermeabile da Sherlock Holmes. Ci sorride (e facendolo sembra sorridere all’intera vita). Dice: «Ho bisogno di parare giù quel pezzo di gomma che ho mangiato alla Viruta».
Héctor fa sì con la testa.
Solo a me sembra tutto meraviglioso?

Buenos Aires è così. Se non la conosci, può venderti pezzi di gomma per pezzi di paradiso.

Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!

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