La stanza delle parole non dette (eccezione da quarantena)

18 Aprile 2020

Un anno fa vivevo a Berlino, avevo i capelli corti e iniziavo a frequentare il Ratibor Theater, un piccolo teatro indipendente immerso negli atomi creativi della città.
Andavo agli spettacoli con la penna in mano, prendevo appunti furiosamente: c’era così tanto da trattenere – corpi, metafore che si facevano carne, magie di occhi e gesti, frasi che non erano solo suoni, ma organi in trasformazione. Soprattutto, assistevo agli spettacoli di teatro d’improvvisazione. Chi balla tango, sa quanto la creazione nell’istante sia potente. La creazione che riempie il presente come una pancia.

Nello stesso periodo stavo lavorando a un progetto di scrittura sull’incomunicabilità fra le persone, sulle paure che ci impediscono di parlare, spiegare, confrontarci.
Se vi guardate intorno, è più la nostra incapacità di comunicare che la nostra abilità a farlo. Trappole, malintesi, fraintendimenti e silenzi, le parole rimangiate, rimuginate, rinnegate. Da ogni parola non detta prende avvio un mondo diverso rispetto a quello che ci sarebbe stato se la parola fosse stata pronunciata, e viceversa.

Quindi la scena è questa: Ratibor-atomo-creativo, improvvisazione-del-presente, incomunicabilità-da-indagare. Cercando di dare una forma al mio progetto di scrittura, di “figurarmelo”, ho deciso di provare un esperimento. Perché non usare il mio corpo per esplorare questa incomunicabilità? Perché non provare a sentirla ed esprimerla? Ho agito con i mezzi che avevo, che sicuramente non erano molti: una stanza bianca, una macchina fotografica discreta ma non supersonica, zero esperienza di regia o cose simili. Solo un potente desiderio di sperimentare.

Ho deciso di rinchiudermi in una stanza e filmare la quarantena delle parole.
È un tipo di quarantena che spesso viviamo senza accorgercene, ma ci lascia addosso segni, pesantezze, cicatrici. Ci fa esplodere nel pianto, nella frustrazione. Vorremmo scoppiare come palloncini saturi, riversando fuori le viscere.

Oggi ho sentito che avevo voglia di condividere l’esperimento. In un periodo in cui riflettiamo sui mille significati metaforici della quarantena, ho pensato che potesse avere senso.

Come tutti i primi esperimenti, è un po’ rozzo. Ha una marea di limiti, è imperfetto e traballante. Ma come dicevo, è nato da un autentico desiderio. Ed è questo desiderio che voglio condividere.

L’invito rimane il medesimo (e lo devo dire per prima a me stessa): comunichiamoci, parliamoci. Certo, anche i silenzi servono. Ma che siano quelli fertili. Non quelli gonfi di paure.

Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!

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