La cafetera del pittore di Buenos Aires

13 Aprile 2019

Pedro G. allarga le grandi rughe intorno agli occhi (che in vita devono aver visto grandi cose) e ci chiede se desideriamo un cafetito. Dopo il nostro sì, Pedro si guarda intorno spaesato, alza il naso verso la mensola, cerca in basso tra le stoviglie, sotto la finestrella che lascia passare l’aria del tardo pomeriggio. Il suo modo di non trovare la cafetera è amorevole. Gliela indica la donna che lo aiuta a tenere in sesto la casa: è proprio davanti a lui, nell’unico luogo su cui non si è soffermato. Pedro ride della sua stessa cecità. A volte è così: siamo convinti che le cose che stiamo cercando siano lontane.

Pedro allunga il braccio con un gesto lento, gli vedo il palmo della mano. È come se la pelle fosse pinzata con delle mollette alle estremità dei polpastrelli e di lì scendesse al modo di una tela ondulata. La pelle delle mani dei vecchi è una di quelle cose che meriterebbe di essere dipinta, descritta, cantata, sognata.
Con tutta la grazia che i suoi ottantanove anni di vita gli hanno permesso di raccogliere da sotto i tappeti dell’esistenza, Pedro appoggia la cafetera su un piccolo fornello senza pretese.

Indossa pantaloncini corti, adatti alla temperatura, ha un po’ di pancia, nonostante per il resto sia magro magro. È tenero, ma un tempo deve essere stato affascinante. Con quello sguardo da pittore impegnato, che non concepisce l’arte come una cerimonia attorno al nulla, ma come un lavoro che è necessario fare, ogni giorno, tutti i giorni, adesso.

Pedro è stato in esilio dal 1977 al 1981, durante gli anni della dittatura. Ha vissuto a Parigi, Madrid, Barcellona. Le finestre del suo atelier davano su Montmartre. Ha esposto, ha lavorato, ha costruito idee e materia insieme ad altri artisti. I suoi occhi grandi hanno visto grandi cose: cose brutte e cose belle. Cose nel mezzo. Gli sono venute le rughe, che si sono scavate solchi prima di fascino, poi di tenerezza. Un giorno è tornato nella sua patria, con tutto quello che significa tornare dopo essere stati costretti ad andarsene.

Tra le varie figure umane che ha dipinto, con tratti che ricordano Braque o Picasso, tra i corpi variopinti e frammentati a cui ha dato vita, ci sono anche i corpi del tango. Ha ritratto le pieghe del bandoneon, quegli interstizi in cui la musica si posa e si contorce, quegli spazi in cui l’anima si nasconde e viene schiacciata o liberata. Suo zio era un compositore di tango e fin da bambino quella musica ha accompagnato le sue giornate.

Non è più bambino da un pezzo. Sotto la finestrella della cucina c’è una torta al cioccolato a forma di cupola. È il suo compleanno, gli ospiti arriveranno entro un paio d’ore. Ottantanove anni e non vedere più la cafetera davanti a sé. Che scherzi fa la vita.

La casa di Pedro si snoda tutta intorno a un piccolo cortile interno: un patio con il tavolino al centro, le piante fresche ai lati e la vite che cresce sopra, aggrappata a un graticolo esile, aggrappato al cielo. È tutto così: calmo. Al riparo dell’ombra. Lì le sere d’estate trascorrono senza dolore. O se non altro, con meno dolore. Ti ci puoi allungare dentro, stiracchiare, puoi respirarle e farle diventare parte del tuo corpo.

Siamo capitati lì un po’ per caso. Che scherzi fa la vita. Ma non capitiamo per caso, qualche giorno dopo, nel suo atelier. Ci va due o tre volte a settimana, monta in bicicletta e pedala per le strade del barrio. Se si mette a piovere, torna a casa con un colectivo, uno degli autobus pazzi, svolazzanti e pregni, dell’immensa città sudamericana.

Nel suo atelier, tra cumoli di pennelli e colate di colori, tra le foto dei viaggi e della famiglia e degli amici – soprattutto di quegli amici che diventano famiglia –, e tra le chincaglierie assurde ma mai casuali e i sassi con dipinti dei gatti, tra i quadri e i poster e le braccia di manichini avvolte da tendaggi di polvere aerea, tra la fotografia fumé di Piazzolla e le locandine di mostre a Parigi e i manifesti degli artisti e le scatole per gli addensanti e gli ossidanti e i riflettenti e i fissanti, tra le statuine e i gessetti e i dipinti, le scatole di latta e los acrilicos, las temperas y los entonadores, le presine, i fili, gli strofinacci e i camici, Pedro ha voluto mettere una frase, che sovrasta dall’alto lo spazio fantasioso del suo mondo a strati e incastri.

DONDE MUEREN LAS PALABRAS NACE LA PINTURA.

Non puoi non vedere la scritta, è come un occhio che ti guarda e chiede di essere guardato a sua volta. Ti si fissa nella mente, tanto che continuerai a pensarci anche il giorno dopo, e quello successivo, e a un certo punto ti chiederai se sia davvero così. Se l’arte arrivi quando non sai più come usare le parole.

Quando discendi le scale dell’atelier e oltrepassi una piccola veranda in cui il sole si imbuca prima di tramontare, quando finalmente ti trovi al pianoterra dopo aver lasciato un po’ di sogni là sopra, quando saluti gli artigiani e gli altri artisti e infili il piccolo vialetto che ti riporta alla strada grande di Buenos Aires, alla sinistra trovi un muretto zeppo di ceramiche iridescenti conficcate nella calce. E tra le ceramiche c’è un tassello con una scritta.

Hay otro mundo y está en éste – Paul Eluard

Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!

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